Il design del futuro ha una nuova regola: tutti gli oggetti sono riparabili

posted on giugno 29th 2012 in News with 0 Comments

Se la rivista online di economia e finanza Forbes – fondata all’inizio del secolo scorso e con sede sulla quinta strada a New York – mette insieme i migliori venture capitalist per consigliare i primi 10 trend tecnologici da tenere sott’occhio per possibili investimenti, almeno uno sguardo bisogna darglielo. Ho iniziato a leggerlo sapendo di trovarci qualcosa a riguardo della digital fabrication, e in particolare la stampa 3D, che in questi ultimi mesi si è ritagliata molto spazio nei media tradizionali.

Infatti, nella seconda pagina in ottava posizione spunta il riferimento alla rivoluzione Bits to Atoms (dai bit agli atomi). Gli autori ne parlano con ottimismo ma con qualche riserva. Innanzitutto mettono in evidenza la difficoltà generale nel diffondere discorsi su hardwaresoftware e codici aperti (open source) ad un pubblico sufficientemente ampio (eh sì, la scalabilità per un VC è tutto). Ma, in particolare, mi ha colpito un termine utilizzato da uno degli autori.

Parlando della portata rivoluzionaria della stampa 3D, ne evidenzia uno dei suoi limiti: la “clumsiness”. In italiano si traduce con rozzezza e metaforicamente goffaggine. Un chiaro riferimento alla bassa qualità degli oggetti creati con le stampanti 3D casalinghe. Certo, anche se la definizione sta aumentando ad ogni nuova stampante in uscita, a pensarci bene c’è poco da stupirsi. Soprattutto a prima vista, è difficile rendersi conto di come siamo abituati ad associare le nuove tecnologie, l’innovazione e in generale i bit a superfici satinate e lisce da accarezzare, interrotte solo da angoli smussati e prese ergonomiche.

Probabilmente il futuro che ci hanno raccontato e che abbiamo visto nei film di fantascienza ha reso così concreto un immaginario che dà per scontato questo binomio. Non stupisce quindi come diventi un’impresa complessa agli occhi dei VC rendere desiderabili e acquistabili delle macchine che producono oggetti che, ad oggi, sono ancora “grezzi” e “goffi”.
Questo giudizio ci rivela ben altro. Ossia quanto sia complesso cogliere fino in fondo la portata rivoluzionaria delle tecnologie che scardinano alcuni assunti dati per scontati. Addirittura sulle forme e i modi in cui si palesa l’innovazione.

Non mi sognerei di obiettare il piacere di avere tra le mani un oggetto sensuale e sinuoso, ma mi piacerebbe riflettere anche sugli aspetti a cui dobbiamo rinunciare per soddisfare questo nostro piacere. In un certo modo, ci troviamo ad un punto in cui l’accettazione di un codice estetico meno tiranno prende piede proprio perché gli oggetti e gli strumenti intorno a noi vengono giudicati a partire da altri valori, valori che rispondono meglio alle esigenze degli stessi consumatori. Secondo Neri Oxman, direttore del gruppo Mediated Matter al MIT Media Lab, la stampa 3D sta avendo nell’architettura e nel design un impatto tanto potente quanto lo è stato l’introduzione dei caratteri di Gutenberg nella stampa.

Come i caratteri mobili hanno democratizzato la diffusione di cultura e informazione, così la stampa 3D ha avviato un processo di democratizzazione nella fabbricazione degli oggetti. Tutto perché ne possiamo influenzare e controllare più facilmente la progettazione senza dover essere designer. Questa fase non è tanto la responsabile dell’introduzione di una serie di tecnologie che facilitano i processi, quanto la promotrice di un cambio di paradigma. Guardiamo, per esempio, al Repair Manifesto di Platform21.

Si tratta di un gruppo di designer con base in Olanda che ha indagato la relazione tra consumatore e prodotto mettendo in connessione l’approccio professionale di chi progetta con la creatività amatoriale degli utilizzatori. Il loro manifesto vuole superare due ostacoli: la sempre più onnipresente obsolescenza indotta dei prodotti e l’ambigua dualità del riciclo che ti fa gettare gli oggetti con meno sensi di colpa.

Il secondo punto del loro manifesto recita: “Le cose dovrebbero essere progettate per essere riparate”. Ovvero: designer di prodotto, rendi i tuoi prodotti riparabili. Condividi informazioni chiare per fare riparazioni fa-da-te. E tu, consumatore: acquista oggetti che possono essere riparati e altrimenti cerca di capire perché questo non ti è reso possibile. Sii critico e indagatore.

Si tratta di un manifesto che non è nato da una reazione dovuta alla crisi economica ed alla scarsità di risorse. Si tratta di un ragionamento centrato su come non diventare schiavi delle tecnologie e mantenere il controllo sugli oggetti che usiamo. Perché saperli riparare significa anche poterli migliorare per assecondare le nostre esigenze, indipendentemente da chi li ha creati.

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Nel corso degli ultimi 30 anni, sempre più spesso designer e progettisti si sono dovuti piegare alle esigenze di profitto delle aziende per cui lavorano. Hanno accettato di creare prodotti sempre più chiusi e artificialmente “irriparabili”. Nello stesso tempo, abbiamo assistito però alla nascita di una corrente di innovatori interessati a una visione diametralmente opposta. Una visione ispirata dalle esperienze dell’open source di sistemi operativi come Linux. L’ambito in cui operano si chiama open design e crea prodotti intrinsecamente liberi perché impostati su una progettualità aperta, quasi come fossero dei perenni prototipi potenzialmente migliorabili da chiunque voglia metterci le mani e la testa. Spesso nascono imperfetti ma sono accompagnati da sufficienti informazioni ed intelligenza per attivare partecipazione e co-progettazione.

Soprattutto, sono nati per soddisfare determinate esigenze senza chiederci in cambio di mettere da parte il nostro senso critico. Ed è in questo contesto che possiamo capire meglio come l’idea di “grezzo” o “rivoluzionario” dipenda da un sistema di valutazione che definisce se un oggetto raggiunge o meno certe finalità. Da una parte troviamo l’oggetto che è il risultato di R&D centralizzato, carico di brevetti e copyright, dal design futurista ma dalla data di scadenza già scritta nel suo DNA. Dall’altra troviamo dei processi creativi aperti che crescono modularmente a seconda dell’ambiente sociale in cui sono immersi. È così che ne viene determinata di volta in volta l’evoluzione e la finalità: ecco perché viene considerata più importante l’apertura piuttosto che l’aspetto estetico.

Ieri potevamo influenzare questo secondo ambito esclusivamente facendo una scelta di consumo e comprare un prodotto preferendolo ad un altro. Ed è quello che ci ha suggerito nei giorno scorsi Kyle Wines su Wired: se volete che Apple si metta a fare laptop “aggiustabili” evitate di acquistare il nuovo portatile con Retina display.

Oggi la prototipazione rapida, il fabbing, lo stesso open design producono strumenti e cose che potenziano direttamente e indirettamente la openness, trasformandoci in consumatori attivi e liberi di determinare il mondo degli oggetti da cui saremo circondati tra qualche anno.

Questo articolo è stato pubblicato su CheFuturo! il 22 giugno 2012.

Co-fondatrice di WeMake, makerspace e fablab a Milano dal 2014 - Craftivist, digital strategist e lecturer, mi sono laureata in filosofia, formata nel mondo della comunicazione strategica digitale e nel network del mediattivismo europeo. Dagli anni '00 ho indagato in vari progetti italiani e europei i confini e le potenzialita' dell'open source nella moda e nel design intrecciandoli con la fabbricazione digitale. Dal 2013 al 2017 ho fatto parte del team di Arduino per occuparmi di digital strategy.