Perché ho chiesto a Passera e Profumo un FabLab in ogni città

posted on maggio 24th 2012 in News with 0 Comments

Ne sono certa, ci sono tante cose che possiamo fare per innescare la rivoluzione di cui abbiamo bisogno. L’articolo di Massimo Banzi è un’altra prova del fatto che l’innovazione in Italia non sia un fantasma. Anche io qualche giorno fa ho lanciato una proposta all’interno della discussione pubblica per l’Agenda Digitale Italiana: creare un Istituto per la Manifattura Digitale. Il suo compito? Finanziare e pianificare per i prossimi 10 anni l’apertura di laboratori d’innovazione focalizzati su open design, manifattura sostenibile e artigianato digitale. Potete commentare l’idea e votarla se siete d’accordo.

So cosa volete chiedermi: ma in un paese come l’Italia un istituto del genere serve davvero? Sì, perché investire su creatività e tecnologia rappresenta un’opportunità che non possiamo ignorare ma, allo stesso tempo, non è un’impresa facile. L’entusiasmo con cui vengono raccontate le storie di innovazione e startup a volte ricorda un po’ la retorica dei “due cuori e una capanna”. Nel caso delle startup, si parla spesso di due computer e una scrivania, le uniche infrastrutture – oltre alle ore di lavoro – che hanno permesso la nascita di aziende milionarie. Bene, in realtà non bastano, serve anche un piano concreto.

Quando guardiamo le storie di successo spesso abbiamo la tendenza di concentrarci sul risultato finale senza soffermarci a sufficienza sul percorso che ha portato al traguardo. Dopo tutto, siamo ben consapevoli del fatto che la formula giusta non si può trovare in un weekend. Pochi sanno che Angry Birds, il videogame blockbuster per smartphone creato dalla Rovio, è il 52° tentativo di gioco in 8 anni da parte dell’azienda, che ha rischiato la bancarotta. O che Pandora, la piattaforma di internet radio, è stata presentata a più di 300 finanziatori prima di trovarne uno disposto a lanciarli.

Tutti possono provarci ma è molto complesso individuare la formula che fa durare un amore cinquant’anni o una startup almeno dieci. Se poi ci spostiamo in settori diversi dal software – come per esempio la manifattura e l’innovazione maker – bisogna superare l’approccio minimal dei due computer e una scrivania. L’obiettivo è ripensare gli spazi di lavoro, le infrastrutture e il territorio legato all’ecosistema di relazioni che permette la sostenibilità dell’intero progetto.

Secondo Michel Bauwens, il fondatore della p2p Foundation, sta emergendo un nuovo tipo di produzione e innovazione distribuita che non trova il suo fondamento nelle strutture classiche di aziende e istituzioni come le abbiamo conosciute finora. Gli attori in gioco sono tre: una comunità di persone che contribuisce alla creazione di conoscenza open, sia essa codice o progettazione di commons; una coalizione di imprese che crea valore sulla base di questi concetti; e infine una serie di istituzioni che gestiscano l’infrastruttura di cooperazione tra le realtà distribuite sul territorio.

Per capire questa triangolazione possiamo dare uno sguardo a cosa sta succedendo nello sviluppo delle stampanti 3D open source. Il progetto RepRap è nato nel 2005 all’interno dell’Università di Bath con lo scopo di creare una stampante tridimensionale in grado di replicare se stessa. Due anni dopo viene rilasciato il primo prototipo: è il risultato non solo del lavoro nel laboratorio, ma anche della condivisione aperta sul processo di trial&error che ha coinvolto un’intera community globale.

Nel 2009 a partire da RapRap, tre americani di Brooklyn danno vita a Makerbot Industries il cui obiettivo è di rendere più user friendly la stampa 3D. Recentemente hanno ricevuto un finanziamento da 10 milioni di dollari e uno di loro, Zach Smith, arriva proprio dall’esperienza inglese della stampante che replica se stessa. Inoltre, sono parte fondante di New York City Resistor. Si tratta di un collettivo di hacker/maker che collaborano in uno spazio comune, si incontrano regolarmente per fare community e condividere conoscenze e progetti. Al loro lab si accede con una sottoscrizione mensile di circa 75 dollari, ma durante la settimana organizzano serate aperte per mostrare, per esempio, come funziona un lasercut o una macchina da maglieria modificata per tessere i disegni che decidi tu. Gli associati hanno accesso a varie attrezzature che di solito non si possono mantenere in casa ma, soprattutto, sono a contatto con persone pronte a condividere know-how e dar vita a progetti che in alcuni casi si trasformano in vere e proprie imprese.

È il caso di Diana Eng – anche lei uno dei membri fondatori di NYC Resistor – che ha lavorato nel dipartimento di R&D di Victoria’s Secret e partecipato a Project Runaway, il reality show con al centro i fashion designer. Il suo lavoro mette insieme moda, matematica e tecnologia quasi tutto made in New York. Dalle magliette tagliate al laser alla sciarpa di maglia che si sviluppa intorno alla successione di Fibonacci, i suoi prodotti sono realizzati in piccole serie e in modalità semi-artigianale a un prezzo accessibile.
Sì, perché parlare di hackerspace, makerspace e fablab non significa riferirsi solo a un ecosistema di maschi che passano il proprio tempo di fronte a un computer o con un saldatore in mano.
Infatti, molti di questi spazi hanno a disposizione macchine da cucire, macchine da maglieria analogico-digitali e stampanti 3D per la prototipazione di accessori. Si tratta di laboratori che ospitano persone con background diversi: alcune sperimentano il taglio di tessuti con il laser, altre esplorano le tecnologie indossabili e fanno evolvere l’idea stessa di produzione artigianale e innovazione per la nascita di piccole imprese.

L’importanza di questi centri non è riconosciuta solo a livello teorico. In varie parti del mondo sono stati stanziati ingenti finanziamenti pubblici, anche alla luce di proiezioni di crescita che vedono, per esempio, il mercato delle stampanti 3D trasformarsi un’industria globale. Secondo le ultime stime, il settore raggiungerà un giro di affari superiore ai 6 miliardi di dollari entro il 2019.

In Inghilterra nel 2010 è nato il Manufacturing Institute, un’istituzione no profit finanziata da università e imprese. Grazie a questa spinta è arrivata l’inaugurazione del primo fablab a Manchester, una struttura che fornisce accesso a macchinari avanzati e percorsi di formazione a imprenditori e inventori. Recentemente, è stata lanciata anche la Young Fab Academy: il programma che vuole stimolare l’inventore che c’è in bambini e bambine dagli 11 ai 16 anni. Per farlo, hanno in programma di aprire ben 30 FabLab in tutto il paese nei prossimi 8 anni.

Anche il presidente Obama è arrivato alla conclusione che per rilanciare la crescita e la creazione di nuovi posti di lavoro bisogna puntare sulla manifattura e il made in USA. Lo scorso marzo ha annunciato la nascita del primo di quindici Institutes for Manufacturing Innovation pensati per accelerare l’innovazione delle piccole imprese americane attraverso infrastrutture intelligenti che si basano su centri locali di formazione e condivisione di big data. Si tratta di un investimento da 1 miliardo di dollari, ossia la metà dell’intero budget stanziato per We can’t wait, il piano per la nascita di imprese che creano posti di lavoro.

In Italia stanno nascendo iniziative che vanno in questa direzione, come la prima delle Officine Arduino inaugurata a Torino lo scorso novembre. Sembra però che le istituzioni non ne percepiscano l’urgenza e ritengano che si possa ancora aspettare. Eppure, il tessuto produttivo italiano è composto principalmente da piccole imprese e lavoratori autonomi specializzati che non sono in grado di permettersi una formazione continua autonoma. Potrebbero tornare a essere più competitivi se solo avessero la possibilità di accesso a questo tipo di infrastrutture.

Per quanto riguarda la moda – il settore di cui mi sto occupando in questi anni – con Openwear stiamo immaginando makerspace locali sostenibili per scatenare una nuova ondata di made in Italy e rafforzarne la competitività. L’idea è quella di fornire a realtà singole o collettive l’accesso a strumenti hi-tech come stampanti digitali per stoffa, macchine da cucire tessili e industriali, tagliatrici, scanner e stampanti 3D. Alle attrezzature verrà affiancato un programma di eventi e laboratori di formazione per liberare quel potenziale creativo che troppo spesso è rimasto paralizzato da vincoli economici. Il piano è pronto, stiamo cercando la giusta opportunità e gli alleati che abbiano voglia di renderlo concreto.

Questo articolo è stato pubblicato su CheFuturo! il 16 maggio 2012.

Co-fondatrice di WeMake, makerspace e fablab a Milano dal 2014 - Craftivist, digital strategist e lecturer, mi sono laureata in filosofia, formata nel mondo della comunicazione strategica digitale e nel network del mediattivismo europeo. Dagli anni '00 ho indagato in vari progetti italiani e europei i confini e le potenzialita' dell'open source nella moda e nel design intrecciandoli con la fabbricazione digitale. Dal 2013 al 2017 ho fatto parte del team di Arduino per occuparmi di digital strategy.