La cura di chi si prende cura

posted on giugno 10th 2019 in DSI & News & Progetti with 0 Comments

L’eredità di pensiero del secolo scorso ci ha abituato a considerare la cura e la tecnologia come due concetti opposti. La cura ha a che fare con l’affettività e l’empatia, mentre la tecnologia, si pensa, è fredda e razionale. Eppure, come spiega Annemarie Mol, tutte le pratiche di cura si avvalgono di strumenti tecnologici (1). Piuttosto che immaginare la cura come una facoltà innata quindi, bisognerebbe vederla come un insieme di tecniche e competenze acquisite in relazione agli strumenti a nostra disposizione.

Le tecnologie digitali in questo senso stanno aprendo moltissimi scenari interessanti. La loro principale promessa è quella di automatizzare le mansioni più faticose o ripetitive del lavoro di cura. In questo senso, l’automazione permetterebbe a chi si occupa di cura di focalizzare la propria attenzione e competenza sugli aspetti più relazionali della presa in carico. La specificità’ delle tecnologie open tuttavia tenta di andare oltre questo, promettendo di rispondere a bisogni molto specifici (e quindi non interessanti per il mercato) e di affrancarsi dagli obiettivi di mercato come unico modello di innovazione tecnologica.

Inoltre, molti dei progetti DSI (ovvero, di innovazione sociale digitale) abbracciano un’etica che mette al centro il destinatario dei servizi e le sue esigenze. Per esempio, uno degli slogan portati avanti dall’agenzia inglese per l’innovazione Nesta è ‘People Powered Health’ (2)— la salute in mano alle persone, mettendo in rilievo, giustamente, i benefici di concepire la salute e ridisegnare i servizi coinvolgendo non solo i pazienti e le loro comunità di riferimento, ma anche volontari e altri portatori di interesse (3).

Nonostante l’entusiasmo per una concezione della cura meno verticistica e riorganizzata orizzontalmente attraverso relazioni di comunità, tuttavia è bene interrogarsi criticamente anche sugli effetti che questi cambiamenti comportano per il lavoro di cura svolto come professione e non come volontariato. Rileviamo una tendenza, anche in alcuni contesti DSI, su cui bisogna riflettere criticamente, a schivare la spinosa questione della retribuzione: chi dovrebbe pagare il lavoro di cura? E quanto?

Come racconta Helen Hester, lo sviluppo e la rapida adozione di apparati tecnologici per il monitoraggio a distanza, l’auto-diagnosi e altre forme di telemedicina rischia di dividere il lavoro di cura tra personale ‘high tech’ e personale ‘high touch’ (riprendendo una famosa espressione di John Naisbitt) (4): da un lato professionisti ben remunerati per occuparsi dello sviluppo di nuove tecnologie; dall’altro assistenti alla persona (5)— molto più poveri e molto meno qualificati — per occuparsi delle operazioni non facilmente automatizzabili, quali vestire, sollevare o lavare i pazienti.

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Questa divisione del lavoro coinvolge molti soggetti razzializzati e migranti, delineando quella che la sociologa Arlie Hochschild ha definito ‘la catena globale della cura’(6), ovvero una impressionante concatenazione globale di persone, in prevalenza donne, che migrano per prendersi cura di anziani, bambini, disabili e malati in zone più ricche e che devono per questo essere a loro volta rimpiazzate da altre nei luoghi d’origine.

Inoltre, mettere l’accento sul ruolo attivo dei pazienti e delle loro reti di supporto informali di amici e parenti (i cosiddetti ‘cari’ — ironicamente) — si rischia di tralasciare il problema del lavoro quotidiano di cura concepito come un problema privato, come dice Melinda Cooper, senza porsi la domanda di chi venga chiamato a svolgerlo e in quali condizioni (7). Il lavoro gratuito rischia così di tornare (o continuare?) ad essere un implicito asset della riorganizzazione della cura nell’epoca post-digitale.

Non solo, i ‘cari’ invocati a fianco dei pazienti ‘empowered’ rischiano in realtà di riproporre strutture di cura familistiche, fondamentalmente organizzate secondo principi coercitivi per lo più verso le donne. Ma tralasciando il problema della remunerazione del lavoro di cura si rischia anche di tralasciare gli effetti e i costi sulla collettività dei caregivers che si ammalano a loro volta. Nel libro ‘Forced To Care’, Evelyn Nakano Glenn mette in evidenza come:

“Molti studi hanno documentato gli alti livelli di stress dei familiari che prestano cure intensive o che uniscono lavoro e cura di genitori e partner o figli disabili. Gli oneri della cura intensiva lascia i caregivers, coloro che se ne occupano, molto poco tempo o energie per occuparsi del proprio benessere, sicché’ anche la loro salute ne risente. Numerosi studi hanno mostrato come i caregivers soffrano con più frequenza di malattie cardiache, pressione alta, diabete, e depressione. Altri studi hanno documentato l’effetto negativo che l’occuparsi di anziani e disabili ha sullo stato economico dei loro familiari.”(8)

Prendersi cura dei caregivers

Cosa vorrebbe dire invece ripensare il tema del lavoro di cura alla luce dei profondi cambiamenti collegati alla sua tecnologizzazione? In larga parte, la visione reazionaria del ruolo della famiglia e delle donne nella cura, ma anche in altro senso la sua esternalizzazione come servizio affidato a categorie di lavoratrici in larga parte migranti (e per questo più vulnerabili a ricatti di varia natura) sono problemi che potranno essere affrontati solo attraverso processi politici di ampio respiro, come per esempio la messa in questione del lavoro stesso come principale meccanismo sociale di redistribuzione della ricchezza, a favore di un reddito di base universale incondizionato. Tuttavia, prendiamo in considerazione qui due aspetti emergenti legati alla cura legati proprio a possibilità supportate da tecnologie open pensate dal punto di vista dei lavoratori, quali il superamento dell’organizzazione fordista dei servizi alla persona e la necessità di estendere l’etica della cura anche agli oggetti tecnologici che la sostengono.

L’autogestione come tecnologia sociale: le infermiere di Buurtzorg

Una delle ossessioni del management contemporaneo è quella di servirsi delle tecnologie digitali per monitorare in tempo reale le performance dei propri dipendenti. Se già ai tempi di Ford l’efficienza produttiva era diventata sinonimo della suddivisione del lavoro in mansioni sempre più semplificate e astratte, da ripetersi in tempi sempre più rapidi, al giorno d’oggi l’utilizzo di sistemi gestionali corredati di app, badges e trackers di ogni tipo ha creato tutta un’infrastruttura di controllo invisibile ma assolutamente concreta per i lavoratori. Invece, l’innovazione sociale potrebbe piuttosto consistere nel superare il modello fordista del lavoro di cura. L’esempio delle infermiere dell’associazione Buurtzorg, nei Paesi Bassi, dimostra che si possono ottenere risultati migliori quando la cura viene gestita il più possibile autonomamente da coloro che se ne occupano e organizzata secondo parametri non standardizzati di tempo e mansioni.

La Buurtzorg è una nonprofit che riunisce infermiere di quartiere nata nel 2006 per iniziativa di Jos de Blok. Le infermiere di quartiere sono una figura professionale specifica del sistema sanitario olandese fin dal secolo scorso. Anello di connessione tra ospedali e medici di base e i pazienti visitati a domicilio, a partire dagli anni Novanta questa figura è stata esternalizzata e le infermiere si sono dovute costituire in organizzazioni autonome in regime di subappalto con il settore pubblico. Fino all’avvento di Buurtzorg, il management di queste organizzazioni ha gestito il personale seguendo una logica organizzativa classica, improntata alla competitività e all’efficienza: tipicamente, i turni sono pianificati centralmente da un manager e distribuiti secondo percorsi che fanno risparmiare sui tempi di percorrenza e che quindi variano ogni giorno; ognuna delle infermiere deve quindi usare un badge per tracciare le mansioni svolte in un arco di tempo predefinito (10 minuti per una iniezione, 15 per un bagno, e così via) (10). Inoltre, le mansioni vengono solitamente assegnate a seconda del livello di specializzazione del personale per ottimizzare i costi, così che le infermiere maggiormente qualificate (e quindi più care) si trovano a gestire solo interventi difficili, mentre quelle meno qualificate faticano a progredire.

Il risultato di questo approccio fordista alla cura domiciliare (potenziato dalle tecnologie) ha prodotto risultati davvero scarsi. Non solo i pazienti lamentano la carenza di un rapporto personale con i propri infermieri, che cambiano in continuazione, ma si ammalano anche con più frequenza. Anche le infermiere hanno dichiarato di sentirsi svalutate nella propria competenza professionali.

Picture by Buurtzorg — Taiwan Visit

Picture by Buurtzorg — Taiwan Visit

La nascita di Buurtzorg ha rivoluzionato questo sistema, proponendo un modello organizzativo ispirato a principi totalmente diversi dal monitoraggio, l’efficienza e la standardizzazione. Pur servendosi di tecnologie per il coordinamento, la Buurtzorg ha eliminato totalmente la figura del manager. Qui le infermiere si autogestiscono in squadre di 10–12 persone. Tutta la squadra si occupa di tutte le mansioni, evitando la frammentazione dei servizi offerti. Le squadre decidono in piena autonomia anche per quanto riguarda la turnazione, le ferie, ed eventuali collaborazioni con centri di riabilitazione o farmacie. L’andamento delle attività viene monitorato e discusso in forma assembleare, e non c’è nessuno che lo valuti dall’alto. Inoltre, il personale della Buurtzorg promuove un approccio che supporta la massima autonomia decisionale dei pazienti, che sono persone che le infermiere arrivano a conoscere in profondità, perché hanno il tempo di fermarsi a parlare con loro, ascoltando le esigenze di pazienti e familiari.

Tutto questo non vuol dire che non si verifichino conflitti o che non sorgano difficoltà. Buurtzorg tuttavia supporta le infermiere con percorsi di formazione specifica rispetto alle tecniche di autogestione e mediazione dei conflitti. Quando una situazione delicata lo richieda, figure con competenza regionale quali coach e infermiere esperte visitano le varie squadre offrendo supporto per la risoluzione di problemi specifici (ma, si noti bene, queste figure non hanno alcun potere decisionale o disciplinare rispetto ai membri delle squadre).

I risultati di questo riorganizzazione del lavoro infermieristico sono impressionanti. Uno studio del 2009 condotto da Ernst & Young ha rilevato che la Buurtzorg richiede in media 40 percento di ore di cura in meno rispetto alle altre organizzazioni gestite in maniera classica. I pazienti rimangono in cura per meno tempo, e tendono ad avere meno ricadute. Calcolato in termini economici, l’approccio della Buurtzorg fa risparmiare al sistema sanitario olandese circa €2 miliardi l’anno. È forse questo il motivo principale che fa sì che il modello Buurtzorg sia al momento in fase di sperimentazione in altri nove paesi. A chi chiede al suo fondatore se intenda brevettare Buurtzorg e farne un franchising, De Blok ha risposto che piuttosto preferirebbe vedere il suo modello adattato a diversi contesti. “I soldi non mi interessano” — ha commentato durante una recente intervista per The Guardian — “Vedo così tante persone cercare nuovi modi di fare le cose in tutti i posti che visito. Tutto sta nel creare qualcosa di diverso a partire dal basso” (11).

Quello che rimane più difficile da misurare, come forse è giusto che sia, è l’impatto di questo approccio sulla soddisfazione professionale delle lavoratrici coinvolte. Un ultimo dato fornisce però un indizio in questo senso: il turnover del personale alla Buurtzorg è il 33 percento in meno che nelle altre organizzazioni e — proprio come i loro pazienti — le infermiere che ci lavorano si ammalano il 60 per cento in meno delle altre. Si ri-scopre così che la forma organizzativa può essere essa stessa una tecnologia della cura (12).

L’approccio all’autogestione e alla formazione messo a punto da Buurtzorg (aperto e non brevettato, in linea con i principi DSI) prefigura un ideale impiego di tecnologie digitali nell’ambito della salute che sposti l’enfasi sul potenziare la capacità di coordinamento e reazione proprio dei collettivi di caregivers in sinergia con le persone prese in carico e le loro comunità di riferimento. Piuttosto che vessare i lavoratori tramite il proliferare di figure manageriali intermedie, l’imposizione di prassi lavorative da catena di montaggio e il monitoraggio continuo, si potrebbe ripensare il ruolo della tecnologia dell’autogestione condivisa dei processi di cura, per esempio attraverso la creazione di piattaforme cooperative online autogestite dai lavoratori stessi, che rimpiazzino le agenzie di ingaggio interinale.

…e i caregivers non-umani?

L’approccio DSI può intervenire rispetto alle trasformazioni in corso nella cura anche in relazione a quel tipo di lavoro forse più nascosto, ma non per questo meno essenziale, che riguarda l’occuparsi della manutenzione e della riparazione degli oggetti tecnologici impiegati nella cura stessa.

Gli orientamenti della medicina contemporanea delineano un futuro in cui il corpo sarà a sempre più intimo contatto (non solo epidermico, ma anche interno) con oggetti tecnologici di vario tipo. Si va dalle maglie chirurgiche, ai defibrillatori cardiaci o agli stimolatori cerebrali profondi. Vi sono dispositivi che connettono il corpo alla rete (come gli orologi che monitorano la pressione), quelli che somministrano farmaci e quelli che combinano aspetti digitali con componenti biologiche, come i microsensori sottocutanei per diabetici. Inoltre, come è ovvio, le strumentazioni digitali di alta precisione sono sempre più indispensabili nella cura anche dal punto di vista della diagnosi e della chirurgia.

In tutti questi casi la cura diventa, proprio come suggeriva la Mol, il risultato di un intreccio sempre più profondo tra competenze umane e performance di oggetti tecnologici, di cui qualcuno dovrà pur assicurarsi un buon funzionamento costante. Chi e come si prende cura delle macchine della cura dunque? E in quali condizioni?

Picture by Jonathan Haeber — Jones Building Medical Equipment 2014

Picture by Jonathan Haeber — Jones Building Medical Equipment 2014

Nonostante i macchinari siano diventati parte integrante della medicina sin dagli anni Settanta e incidono tantissimo sui costi delle terapie, le leggi che dovrebbero ragionare sul ciclo di vita delle macchine stesse hanno faticato a rimanere al passo con i cambiamenti in corso. Negli Stati Uniti, le cui leggi spesso influenzano l’impostazione di norme adottate in altri contesti, i legislatori non sono ancora arrivati a sviluppare una quadro legislativo che assegni con chiarezza la responsabilità di manutenzione e riparazione su tecnologie impiantate nel corpo, una situazione che alcuni ricercatori hanno denunciato come allarmante (13). Inoltre, dispositivi complessi quali i robot chirurgici o gli scanner 3D per il corpo richiedono l’intervento di ingegneri e tecnici specializzati non sempre di facile reperibilità’. La crescente intimità tra tecnologie e corpo richiede di estendere l’etica della cura agli oggetti. Se anche un semplice defibrillatore comune non serve a nulla se è rotto, possiamo ben immaginare che le complicazioni che può dare un pacemaker malfunzionante siano di tutt’altro ordine.

Il problema che chi si occupa di cura nel quotidiano si trova ad affrontare oggi è che la manutenzione e la riparazione delle tecnologie necessarie sono rese enormemente più difficili, lunghe e costose a causa della volontà dei produttori a mantenere il totale controllo sui propri prodotti. In nome del segreto industriale si negano informazioni ai tecnici terzi, si rende la diagnostica dei problemi difficile, mantenendo il monopolio sui pezzi di ricambio.

Questo è una limitazione poco conosciuta ma che impatta enormemente la capacità di intervento e cura di ospedali e cliniche con budget ridotti. Nei paesi e nelle regioni più povere, la questione degli apparecchi medicali rotti o malfunzionanti ha spesso conseguenze gravi, di vita o di morte per le persone. I dati forniti dall’organizzazione Mondiale per la Sanità sono scoraggianti: in alcuni paesi, il 50% dei macchinari medici sono, in un qualsiasi momento dato, inutilizzabili; in alcuni ospedali, si arriva addirittura all’80% (14).

Qui, il lavoro dei riparatori e del personale medico a supporto del benessere collettivo si scontra in maniera molto evidente con gli interessi di un piccolo numero di business privati molto potenti. Accanto a battaglie legali organizzate (come la Repair Association negli Stati Uniti) che stanno iniziando a rivendicare il diritto alla riparazione, alcuni tecnici stanno scegliendo di reagire alla situazione con iniziative dal basso. È questo il caso di Mike, il tecnico biomedicale in pensione che gestisce il sito The Electric Squirrel (15), dedicato alla manutenzione degli euqipaggiamenti tecnici più comunemente utilizzati negli ospedali del sud del mondo. Ma anche di Frank Weithoener, un altro tecnico specializzato in macchinari biomedicali che vive in Tanzania. Frank, che ha lavorato come istruttore e consulente in diversi paesi cosiddetti in via di sviluppo, dichiara di avere aperto il suo sito perché’ stufo di incontrare ovunque assurdi ostacoli alle riparazioni. Sul suo Frank’s Hospital Workshop (16) raccoglie e pubblica quindi tutti i manuali di manutenzione e documentazione tecnica su cui riesce a mettere le mani, oltre a fornire tutorial realizzati da lui. Come prevedibile, le aziende produttrici come Weyer, General Electric e altre, minacciano regolarmente Frank di portarlo in tribunale, intimandogli di rimuovere i manuali dalla rete (17). Ma lui per fortuna sembra intenzionato a resistere e andare avanti nella sua missione di prendersi cura delle macchine che ci servono per curarci.

I problemi identificati da Frank al lavoro di manutenzione comunque sono di diversa natura, non solo la difficoltà a reperire pezzi di ricambio, perché le case madri ne mantengono il monopolio, ma anche la disattenzione della politica al finanziare il supporto tecnico e stanziare fondi specifici per la manutenzione preventiva degli equipaggiamenti e la formazione continua dei tecnici.

Questa disattenzione verso la manutenzione delle macchine che curano è in netta continuità con la precedente: l’invisibilità strumentale attribuita al lavoro di cura più tradizionalmente intesa. Si potrebbe allora ripartire da qui per disegnare i contorni di un approccio diverso, che intrecci un pensiero della tecnologia capace di accompagnarsi ad un pensiero di riorganizzazione del lavoro di cura vivo e liberato, che vada oltre un semplice tecno-soluzionismo ma anche che sia in grado di mantenere al centro delle riflessioni le condizioni in cui questo lavoro di manutenzione della vita viene svolto e da chi, nel migliore dei modi possibili.


Notes/Note

(1) Mol, Annemarie, Ingunn Moser, and Jeannette Pols, eds. Care in practice: On tinkering in clinics, homes and farms. Vol. 8. transcript Verlag, 2015.
(2) Penny, Joe, J. Slay, and L. Stephens. “People Powered Health: Co-Production Catalogue.” NEF/NESTA: London, UK. NESTA (2012).
(3) See for instance the case study ‘Echopen’ in this publication.
(4) Naisbitt, John, Nana Naisbitt, and Douglas Philips. 2001. High tech, high touch: technology and our accelerated search for meaning. London: N. Brealey.
(5) Richards, Luke. “Automation and Healthcare: an interview with Helen Hester”. Autonomy Interview 2, Autonomy Research Limited (December 2017).
(6) Hochschild, Arlie Russell. “Global care chains and emotional surplus value.” On the edge: Living with global capitalism 3, no. 5 (2000): 130–46.
(7) Cooper, Melinda. Family values: Between neoliberalism and the new social conservatism. MIT Press, 2017.
(8) Glenn, Evelyn Nakano. 2012. Forced to care: coercion and caregiving in America. Cambridge, Mass: Harvard University Press, p. 3.
(9) See for instance Basic Income Network Italia: https://www.bin-italia.org/
(10) Laloux, Frédéric, and Etienne Appert. 2016. Reinventing organizations: an illustrated invitation to join the conversation on next-stage organizations, 62–73.
(11) Brindle, David. “Buurtzorg: the Dutch model of neighbourhood care that is going global” The Guardian, 09/05/2017
(12) The links between workers well being and forms of autonomous organizations are already well known, see for instance the experience of institutional analysis in France and the experiences of workers’ self-management in Yugoslavia.
(13) Dave Davies interview to Jeanne Lenzer, “Are Implanted Medical Devices Creating A ‘Danger Within Us’?” NPR, 17 January 2018.
(14) The Repair Association. “Device Companies are Cutting Hospitals Out of the Loop
(15) https://theelectricsquirrel.wordpress.com
(16) http://www.frankshospitalworkshop.com/
(17) Art. cit., The Repair association

by Valeria Graziano, with the contribution of Zoe Romano, Serena Cangiano and Maddalena Fragnito (WeMake). WeMake is the cluster lead for Health and Care in DSI4EU project

Leggi l’articolo in inglese su Medium.

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