#WeMakeStories: Gianni Terragni e la robotica

posted on luglio 2nd 2018 in Featured & News & WeMakeStories with 0 Comments

Gianni Terragni è uno dei nostri maker storici, entrando a WeMake lo si vede seduto in fondo, vicino al banco dell’elettronica. “Sono un pensionato, ma sono più attivo adesso di quando lavoravo, diciamo che ho circa 56 anni di anni di esperienza nel campo dell’elettronica, non ho mai smesso di fare il tecnico!”, chiarisce subito Gianni.

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Quando sei diventato un maker?
Sono stato “deformato” da mio padre che era un maker, è stato lui ad introdurmi nel mondo dell’elettronica. Tieni presente che in Italia quando ero giovane io era molto difficoltoso accedere ai pezzi, perché da un lato erano costosi e dall’altro avevi bisogno di avere un’elevata istruzione. Mio padre aveva fatto un corso per corrispondenza di elettronica di una scuola torinese e io l’ho fatto un po’ con lui. Abbiamo costruito una radio e un oscilloscopio insieme: avevo 6 anni.

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Hai una formazione pratica o scolastica?
Mi sono appassionato all’elettronica, ma non mi piaceva studiare e quindi sono andato presto a lavorare e lì mi sono reso conto che avevo bisogno di acquisire conoscenze specifiche e quindi mi sono ritrovato a frequentare vent’anni di scuole serali e l’ultimo corso l’ho fatto che ero già sposato!

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Come sei arrivato a WeMake?
Andando in pensione ed essendo nonno volevo soddisfare il desiderio di mio nipote che voleva un robot. La robotica è sempre stata un mio pallino e così abbiamo costruito insieme un robot quando lui aveva 6 anni ed erano 6 anni fa e WeMake ancora non esisteva! Per costruire questo robot ho rischiato il divorzio, perché ho trasformato la mia casa in una falegnameria. Per questo motivo mi sono messo a cercare un fablab e in internet ho trovato WeMake e sono venuto qui proprio alla sua fondazione che è stata a marzo e all’apertura del laboratorio vero e proprio dopo l’estate. Questo era proprio il posto che mi serviva.

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Perché WeMake ti ha attratto come luogo?
Inizialmente sono stato colpito dallo spazio e dai materiali, c’era tutto quello che stavo cercando, poi mi ci sono innamorato per l’atmosfera e le persone.

È cambiato tanto WeMake negli anni?
È cambiato parecchio e così anche il mio ruolo qui dentro, devo dire però che ritrovo ancora lo stesso spirito. Inizialmente era un luogo di “adepti” che avevano bisogno di usare i macchinari, oggi si sta evolvendo verso la condivisione della conoscenza attraverso l’erogazione di corsi sempre più rivolti a studenti delle scuole e a chi si affaccia al mondo del lavoro.

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Cosa fai a WeMake?
Io contribuisco nell’ambito dei corsi. Durante una delle prime Community Night dell’Arduino User Group & Wearables (AUG) ho presentato il Terry Boot e da lì è partito il mio percorso: lo scopo di questo robot era quello di essere una piattaforma per sviluppare la robotica, nel tempo è diventato un oggetto didattico anche grazie allo stimolo che ho ricevuto durante degli incontri con gli educatori della Community di Open Education.

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Per chi è pensato il Terry Boot?
Partiamo dal nome: si chiama “boot” perché è concepito come un “baule” di oggetti che possono essere introdotti nel mondo della robotica; “terry” perché mi chiamo Terragni! Quindi è una base di sviluppo rivolta a tutte le età e a tutti gli scopi della robotica. La robotica non è il robot, ma una branchia dell’istruzione che tocca tantissime materie, si va dall’elettronica, alla meccanica, alla fisica, alla chimica… quindi quell’oggetto finale è aperto a ogni tipo di sviluppo.

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Cosa rappresenta il robot per te?
Per me fare un robot non ha un inizio e una fine, è qualcosa che si muove e dà la possibilità di fare un lavoro in modo quasi autonomo (pensiamo anche solo alla lavatrice, al macinino da caffè…). Quando si entra in questo campo ci si accorge che è vastissimo e si scopre sempre qualcosa di nuovo.

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Che corsi tieni a WeMake?
Il mio primo corso era rivolto a bambini di 6 anni accompagnati dai genitori (guarda l’album Flickr), quindi in pratica non c’era un’età, perché c’erano bambini e adulti! La mia nipote maggiore a circa 3 anni era già interessata a quest’oggetto che si muoveva come reazione a un suo comando. Partendo da questo ho sviluppato un progetto che va bene a partire dai bambini della scuola materna fino all’università, questo perché il Terry Boot non è un oggetto finito, ma una base di sviluppo. Quest’anno ho invece portato avanti dei corsi per i ragazzi delle scuole medie e ho seguito, come anche in questi giorni, dei progetti di Alternanza scuola lavoro.

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C’è differenza fra studenti e studentesse?
Se ripercorro la mia esperienza, devo dire che le bambine/ragazze sono molto più interessate dei maschi e quando si trovano a competere sono più pronte credo perché hanno una capacità di concentrazione e conseguente approfondimento maggiori, i maschi vogliono subito passare a uno stadio successivo. Questo è uno dei motivi per cui ritengo che la robotica vada diffusa di più nel mondo femminile.

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Che suggerimento dai a WeMake?
È sempre difficile dare suggerimenti, WeMake è un luogo che va vissuto per cogliere gli aspetti positivi della quotidianità del fablab. Frequentare WeMake vuol dire intercettare persone che hanno capacità e competenze differenti, che siano matematiche, di elettronica o altro: se si riesce a farle incrociare si crea un grosso valore aggiunto ai progetti. Poi va sottolineato che c’è un ambiente misto di uomini e donne e questa non è una cosa scontata. In un fablab oggi si possono fare cose che in anni relativamente recenti erano impensabili. Io negli anni ‘70 e ‘80 avevo una collaborazione epistolare con dei maker in California, devi pensare che non c’era la rete! Il mio primo microcontrollore mi è costato due stipendi, e da qui si capisce l’importanza di Arduino! I componenti continuano a costare, niente è regalato, ma almeno sono a disposizione. Diciamo che la nostra rivoluzione si basa su accessibilità+internet+opensource+elettronica a basso costo.

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Il maker è uno dei mestieri del futuro?
Non credo, però può sicuramente essere la componente o il valore aggiunto di un lavoro, questo sì. Se vogliamo essere espliciti: ci costa di più fare un oggetto che non comprarlo già costruito con la conseguenza negativa che creiamo una gran quantità di rifiuti e ci immergiamo in una crescente frenesia consumista. Quindi fare il maker di per sé non è sostenibile.

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