WeMake come officina della cura

posted on novembre 8th 2017 in Featured & News & Opencare with 0 Comments

La rete e le tecnologie open stanno avendo un forte impatto nel ripensare un ruolo attivo per i cittadini, enti e organizzazioni al fine di stimolare e sperimentare forme d’innovazione per l’inclusione sociale. Nell’ambito del Programma europeo di digital inclusion CAPSSI WeMake è uno dei partner di un progetto che ha come tema la cura, l’assistenza sociale e sanitaria; il nome che è stato scelto per il progetto è opencare.

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Il progetto opencare alla Maker Faire 2016 a Roma

Presso WeMake sta collaborando anche un ricercatore con un progetto etnografico proprio su opencare. L’attività etnografica consiste anche nel documentare le attività ed esperienze, nonché interpretare e analizzare ciò che avviene durante le dinamiche di progettazione e interazione tra makers, istituzioni e cittadini.

Federico Monaco -sociologo e e-Learning designer

Federico Monaco -sociologo e e-Learning designer

Federico Monaco ha già presentato a luglio le fasi della ricerca durante il workshop “Fab Life”, e a settembre “We make noise” l’approfondimento su uno degli approcci utilizzati che riguarda l’analisi dei suoni del fablab stesso. Il workshop del prossimo 16 novembre non sarà solo l’occasione di presentare i dati, ma anche di descrizione del ruolo dei makers come cardine tra società e istituzioni, proprio perché attori sociali capaci di soluzioni concrete, condivise e scalabili. In previsione del terzo workshop dal nome #caremakers abbiamo chiesto a Federico di parlarci della sua analisi del makerspace sul rapporto tra innovazione socio-tecnologica e sostenibilità della cura.
Frequentare WeMake e ascoltare le diverse voci dei makers coinvolti nella narrazione opencare, gli ha permesso di individuare diversi livelli e diversi modi in cui l’azione sociale dell’innovazione si coniuga con quella della sostenibilità della cura. Due anni di progetto opencare con il contributo di hackers, designers, innovatori e makers ha portato a rovesciare completamente il problema e ripensare il tema della cura al di fuori dei luoghi di cura, non solo online. Innanzitutto, l’esperienza etnografica ha confermato che vi sia già un contesto culturale e sociale favorevole al cambiamento e che sia possibile stimolarlo e articolarlo con la progettazione partecipata tra utenti e servizi. Il coinvolgimento di attori ibridi come i makers, a cavallo tra l’industria e l’innovazione da una parte, quanto tra istituzioni e territorio dall’altra, sta fornendo un modello esemplare e innovativo di articolazione tra cittadini e istituzioni, favorita da un approccio aperto in cui le tecnologie open diventano anche strumenti di progettazione dei servizi.

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La connettività sociale della rete, i movimenti per il software e il libero accesso alle informazioni online non possono che essere dei validi esempi per chi voglia impegnarsi in soluzioni sostenibili con tavoli di progettazione su temi di carattere sociale allargata ai cittadini.
Già negli anni ottanta esperienze come i Brede maatschappelijke discussies (dibattiti sociali aperti, ndr) furono modi sperimentali per avvicinare cittadini, istituzioni ed esperti nell’affrontare il tema del fabbisogno energetico e del rischio nucleare nei Paesi Bassi. Non è un caso che finalmente la tecnologia sia coinvolta non più come problema, ma come strumento, dato che istituzioni e cittadini insieme possono trovare formule veramente sostenibili in termini di fabbisogno, ricadute, servizi, budget e anche salute. Esempi attuali sono quelli della città belga di Ghent che ha coinvolto Michel Bauwens fondatore della p2p foundation, o di Barcellona grazie all’impegno di Francesca Bria.

Nel caso specifico di opencare, policy makers e istituzioni possono ricavare le proprie considerazioni non solo osservando e leggendo l’alto numero dei contributi e di esperienze sul network opencare. Il co-design della cura (vedi ad esempio l’articolo di nòva in cui siamo citati) prevede un ruolo innovativo proprio per le istituzioni. È importante sottolineare quanto il Comune di Milano, partner come WeMake nel progetto opencare abbia collaborato fianco a fianco con il fablab nel concepire e attuare le azioni sul territorio di coinvolgimento e di design sostenibile dei servizi e delle soluzioni.
Anche sul fronte accademico la collaborazione di Ezio Manzini a opencare rende ciò che sta avvenendo a Milano un case study di design sostenibile e allargato alla cittadinanza. Il Comune di Milano e il makerspace WeMake stanno collaborando per costruire e assemblare soluzioni, strumenti e idee a partire dal basso e dalle esigenze particolari e concrete dei cittadini.

L'hardware del progetto Inpé

L’hardware del progetto Inpé

Caremakers, fabbricatori della cura, è il termine scelto per descrivere in sintesi il ruolo che il fablab ha nel riconfigurare l’universo del morbid living, il quotidiano patologico; si tratta di un mondo sociale, spesso etichettato come disagio e malattia, ancora nascosto e fatto di tante microstorie che finora non hanno avuto la possibilità di emergere con le loro potenzialità e generare una massa critica di esperienze, connessioni e vantaggi come risorsa pubblica.
La combinazione tra making e healing è necessaria per affrontare gli squilibri tanto di salute quanto sociali, sovente di semplice accesso alle informazioni o di costruzione di un prototipo specifico adatto al caso.

Esempi di “chiamata” durante il progetto openrampette

Esempi di “chiamata” durante il progetto openrampette

La tangibilità offerta dai progetti sviluppati dai makers di opencare si può pesare visitando il makerspace e la rendicontazione delle attività di Maker In Residence e Openrampette all’interno della esperienza opencare stessa. I makers coinvolti sono stati tanti, non solo milanesi, non solo italiani e europei. Sicuramente uno dei vantaggi di WeMake è la sua capacità di rappresentare senza difficoltà il mondo sociale. Maker giovani, maker donne, maker senior, tutti coinvolti nel capire quali possano essere soluzioni veramente sostenibili in base alle proprie esperienze e conoscenza del tessuto sociale milanese in cui molti di loro sono cresciuti, e dove hanno già “fabbricato” progetti di inclusione sociale e di coinvolgimento di cittadini. Pensiamo a come il quotidiano patologico venga ancora e abitualmente vissuto dai cittadini in una delega forzata della propria salute alle agenzie istituzionali preposte a questo. Forse ciò che manca in ambito sanitario è il “contesto sociale di cura”, che non viene ancora creato ad hoc. A WeMake ho assistito a dinamiche veramente innovative di parlamento della malattia e officina della cura in cui il cittadino viene considerato un soggetto che partecipa e decide sull’ambiente, sulla città, sul quartiere in cui vive, su sé stesso.
Insieme diventa possibile decidere quali problemi affrontare, con che priorità, rischi; decidere soprattutto su quali soluzioni adottare.

L'incontro con i cittadini per la procedura di openrampette

L’incontro con i cittadini per la procedura di openrampette

Veniamo all’ambito opencare descritto con le parole di Federico.
All’interno di WeMake ho visto il fatto socio-sanitario affrontato finalmente come fatto sociale -che paradosso vero?- e di gestione condivisa delle informazioni. Esistono competenze, sinergie e dati che se fossero veramente gestiti in modo smart come a WeMake porterebbero a soluzioni compatibili per i diversi attori coinvolti – soprattutto i pazienti e utenti dei servizi. La progettazione partecipata con soluzioni scalabili e open rappresenta una forma di commons da esplorare nelle sue funzioni e ricadute positive non solo sul territorio, ma all’interno delle istituzioni stesse, in quanto capace di rinnovare la cultura organizzativa rispetto alle esigenze del territorio stesso.
Tutto questo è osservabile nell’osmosi organizzativa, della produzione e progettazione presso WeMake.

Una delle domande che mi sono posto durante la fase di posizionamento come etnografo presso il fablab milanese è stata: WeMake è un luogo di cura?
Continuo a domandarmelo e trovo volta per volta sfumature e considerazioni che mi fanno capire che il problema della salute forse è finora stato impostato alla rovescia in quanto ogni luogo sociale, ogni agorà, è un luogo di relazione e di cura del prossimo.
Il luogo sociale ha sempre favorito la relazione di cura fino a prova contraria. Lo è sempre stato in quanto villaggi e famiglie, pratiche collettive e tradizioni hanno “curato” le persone per millenni. La sfida è integrare scienza e società. tecnologia e democrazia in un ecosistema veramente al servizio dei cittadini perché progettato con i cittadini.

Il welcome kit per i makers coinvolti nella Maker In Residence

Il welcome kit per i makers coinvolti nella Maker In Residence

Il makerspace è in effetti un “luogo di cura”, uno spazio di possibilità per chi lo frequenta, ma anche per il proprio ruolo attivo in rete. Non dimentichiamo che essere maker vuol dire essere nerd, designer, artista, problem solver, a differenza delle realtà già istituzionalizzate della cura dove difficilmente dei ruoli si sovrappongono e vengono invece gerarchizzati non riuscendo a rispondere alle esigenze e situazioni concrete e particolari.
La natura sperimentale dei progetti di cui si sta occupando WeMake rivela livelli di lettura e forme plastiche e eterogenee che difficilmente si riuscirebbero a etichettare come “cura”, ma che hanno invece la peculiarità di essere costruite non attorno al paziente, ma con il paziente e con le sue necessità reali e specifiche.
Certo siamo abituati alla natura del fatto oggettivo e scientifico in quanto tale solo dopo una convalida di esperti, di pari, ma le trasformazioni della società, le necessità e le ipotesi sempre più diverse e diversificate, ci riportano alla realtà del poter costruire insieme, fabbricare fatti, come già avveniva nei primi laboratori, nei gabinetti scientifici prima della Big Science e del pregiudizio che il cittadino sia solo un lontano fruitore di servizi.

Il luogo WeMake è capace di riconfigurarsi a seconda delle necessità in quanto spazio open in tutti i sensi.
È un luogo sociale non destinato a ciò in quanto tale, ma perché qui la gente viene per fabbricare cose visibili e concrete, viene per confrontarsi con gli altri. Ogni progetto diventa un progetto che coinvolge più persone, che recluta volontari per dei think tanks improvvisati, che realizza attività di Problem Based Learning collettivi. Non è un ufficio e si lavora con i pc, non è un officina e si opera con dei trapani a colonna, macchine per maglieria e saldatori, non è una scuola, ma si tengono continuamente corsi, non è un punto di ritrovo, ma ci si incontra e ci si conosce.

Programmazione a WeMake

Programmazione a WeMake

L’utilizzo degli spazi e la loro disposizione è qualcosa che mi ha colpito per via della capacità di accogliere numeri diversi di persone e di attività contemporaneamente. Il luogo che si rinnova di continuo con i suoi progetti di prototipi non è preposto a nessuna attività in particolare e pertanto ha grandi potenzialità in termini di risultati e efficacia su progetti di innovazione.

Il luogo WeMake stesso diventa, per le proprie potenzialità di adattamento alle esigenze personali e specifiche, un esempio di fabbrica della cura dove le relazioni configurano e danno senso all’ambiente e non viceversa. Il caremaker non potrebbe essere solo una professione, ma una attitudine verso il prossimo e il suo mondo, con cui costruire la soluzione, manipolando le possibilità attorno alla persona per rispondere all’esigenza concreta e reale.

Vi aspettiamo numerosi al workshop!
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