Wearable tech, un settore in crescita ma con alcuni limiti
Quando si pensa al made in italy vengono in mente, quasi per libera associazione, due cose: il cibo e la moda, simboli indiscussi di eccellenza e di qualità del nostro Paese. E tutti e due non rimangono certo immuni agli sviluppi e alle “magie” dell’innovazione, anzi, da questa traggono nuova linfa e slancio. E il weareable tech come sta reagendo? Abbiamo a questo proposito intervistato Zoe Romano, laureata in filosofia e appassionata di tecnologia che ha partecipato alla creazione di iniziative di attivismo sociale sulla precarietà come San Precario e il suo anagramma Serpica Naro, oltre ad aver co-fondato il progetto pilota europeo di moda collaborativa Openwear.org attivo dal 2009 al 2012 e Wefab.it, una serie di eventi per la diffusione della digital fabrication e dell’open design in Italia. Si occupa di strategia digitale e tecnologie indossabili per Arduino.
Il 2015 era stato presentato come l’anno del weareable tech? È stato così? Che sviluppi per il 2016 del settore? E per chi non lo conosce, vuoi spiegarci meglio di che si tratta?
Esiste di sicuro stato un aumento dell’offerta rispetto ai gadget tecnologici indossabili ma il 2015 è stato anche un anno in cui si sono visti i limiti e gli ambiti di azione di tali dispositivi, chi li utilizza e soprattutto per quanto tempo. L’interesse è molto alto anche se poi non si sa bene per cosa poi siano poi realmente utili. Con wearable tech si intende quella tecnologia che può essere indossata e quindi permettere interfacce di interazione insolite, se comparate a quelle che di solito abbiamo con i nostri smartphone, tablet o pc. Tali interazioni vanno oltre al tocco del dito su uno schermo touch per ampliarsi su gestualità più complesse. L’ambito di sviluppo per il 2016 che sta raccogliendo attenzione e anche investimenti riguarda il rendere la tecnologia trasparente incorporandola negli stessi tessuti. La vera e propria maturazione di questo settore della tecnologia avverrà quando scomparirà l’idea stessa di gadget. E forse nel 2016 vedremo già qualcosa.
Una riflessione sul movimento makers nel 2015 e qualche previsione per il 2016?
Il 2015 è stato ancora un anno di boom italiano nell’apertura di makerspace a fablab e credo che il 2016 potrebbe diventare quello dell’assestamento.
Presso WeMake avete a disposizione il libro Wereable Tech di Hartman. Perché questo e non altri?
Il libro della Hartman è stato il primo libro di Wearable tradotto in italiano. Ho accettato di farne la prefazione perchè lo reputo uno dei testi più interessanti nel panorama delle pubblicazioni del genere e utile per chi vuole imparare di interattività a partire dalle tecnologie indossabili.
Com’è stato l’anno di WeMake?
Il 2015 è stato per noi il primo anno completo, visto che abbiamo aperto a metà del 2014. Siamo riusciti a imparare dagli errori e riusciti a mettere a regime le attività di routine del fablab per poterci concentrare su progetti che più ci interessano e che ci fanno crescere. Siamo molto contenti di aver vinto un progetto europeo sul tema della cura, Opencare, con partner anche il Comune di Milano e che ci vedrà impegnati per due anni nell’individuare soluzioni dal basso e open source insieme a Edgeryders. OpenCare coordinarà un processo di individuazione di tematiche e problematiche, aperto a tutti, con l’aiuto delle comunità già esistenti che fanno innovazione nella società (hacker, artisti, attivisti, designer, tra gli altri).
Come viene percepita nel milanese (ma anche in generale in italia) l’innovazione nell’ambito del weareable, anche dai non makers?
Dall’esperienza fatta sin’ora nel proporre workshop e iniziative, ci accorgiamo che la tematica è ancora vista come fosse un po’ fantascienza e con qualche timore iniziale di non essere in grado di costruirsi le conoscenze e competenze necessarie per attivarsi nella creazione di progetti.
Qual è il “termometro” per misurare il movimento? La quantità dei fablab aperti (vedi Italia) corrisponde naturalmente a un buono di salute o ci sono altri fattori?
Di sicuro la tenuta e la determinazione. Pur avendo lo stessa etichetta, i laboratori hanno spesso una natura molto diversa l’uno dall’altro. Il solo fatto di chiamarsi fablab non li rende omogenei nella loro realtà pratica. Quando apri, lo fai con un’idea in testa e che molto spesso dovrai cambiare per seguire la risposta della community che viene ad utilizzare il tuo fablab per ragioni di cui non ti eri neanche immaginato.
Quali credi siano, oggi, le criticità dei makers e dei fablab in Italia. Rispetto al resto del mondo, come ci collochiamo? Siamo al passo? Abbiamo qualcosa in più?
È un po’ difficile generalizzare in questo modo anche perche’ non credo ci siano cosi tante differenze rispetto al resto del mondo.
Zoe Romano
@zoescope
Pubblicato su: http://www.makeinitaly.foundation/wearable-tech