Come hackerare una sedia nell’era dell’open design
Quando mi ha scritto Viviana Narotzky, storica del design e presidente di ADI-FAD, sono rimasta piacevolmente stupita perché per la prima volta mi sarei ritrovata a raccontare di moda collaborativa in un contesto di puro design. L’evento intitolato “Open Design, Shared Creativity” (Design aperto, creatività condivisa) si è tenuto durante un forum internazionale organizzato proprio lo scorso luglio durante il Festival del Design a Barcellona, che ha riunito vari pensatori e sperimentatori intorno al tema dell’open design.
Non si trattava del primo evento incentrato su questo tema in Europa, già ad Amsterdam e a Berlino lo scorso anno si era detto e fatto molto, specialmente a partire dal lancio del libro “Open Design Now! Why design cannot remain exclusive” (Design aperto ora! Perché il design non può rimanere esclusivo) che oggi è considerato una sorta di reader per chi vuole capire lo stato dell’arte delle riflessioni sul design dai codici aperti. Il libro, una raccolta di saggi ed interviste, è pubblicato in forma cartacea ma già ora sul sito è possibile leggere gran parte dei pezzi perché a partire dalla pubblicazione è stato rilasciato online l’80% del suo contenuto e presto raggiungerà la sua completa “apertura”.
Il mio stupore derivava dal fatto che, in questi ultimi anni, le tematiche del design open source hanno quasi sempre ricevuto attenzione in contesti più lontani dal design industriale e di moda. Come ha detto Ronen Kadushin, uno tra i designer partecipanti al forum, il concetto di open design rappresenta uno dei tentativi di chiudere il vuoto creativo tra il design di prodotto e gli altri campi creativi come la musica, la grafica, la fotografia. Un tentativo messo in atto attraverso le relazioni tra i prodotti e le economie che si sono sviluppate grazie alle opportunità di condivisione legate al web 2.0 e alla diffusione di macchine a controllo numerico.
Ed è proprio questo secondo aspetto che rende simili la moda e il design di prodotti: l’aspetto materiale, concreto, produttivo. A differenza di musica, grafica e fotografia, che possono essere smaterializzati, moda e design di prodotto non possono essere separati dal supporto materiale. Se è vero che posso ascoltare un pezzo musicale o godere di una fotografia in modo completamente digitale – dove l’atto stesso di creazione e condivisione online significa generare un valore d’uso per qualcuno – lo stesso non accade per una sedia o un capo di vestiario. Grazie a questa rivoluzione, l’industria della musica si è trovata costretta a ripensare un modello che non ruota più intorno solo alle grandi star delle grosse major e che non viene distribuito su CD venduti nei negozi di dischi. Nel caso invece della condivisione di un abito o di un oggetto, non basta il suo codice immateriale, per esempio il cartamodello o il disegno tecnico. È necessario un passo in più: la sua produzione.
Secondo Joris Laarman, giovane designer olandese, i veri modernisti di un secolo fa, erano già spinti da un desiderio di condivisione. Per esempio Rietveld del movimento De Stijl e creatore della famosa Sedia Rossa e Blu produceva manuali su come realizzare le proprie sedie, ma il contesto non era maturo per la produzione distribuita. Il modernismo, che come fondamento aveva il desiderio di democratizzare il design, si è trasformato in un mero fatto estetico perché la produzione è diventata di fatto centralizzata, e i pochi che la controllano ne proteggono la proprietà intellettuale anche per l’ingente investimento in mezzi di produzione e distribuzione. La qualità è mantenuta alta dal produttore stesso che però, allo stesso tempo diventa portatore di un potere molto grande. Ossia, si trasforma in gatekeeper perché è lui che decide cosa val la pena produrre in grande quantità oppure no.
Ma poco tempo fa qualcosa è cambiato dando al possibilità ai designer di smarcarsi dalla stretta gerarchia di gatekeeper all’interno di un modello nato dalla civiltà industriale. Oggi si sta affiancando un nuovo modello che sta rivoluzionando gli ambiti creativi finora rallentati dalla forza di gravità della loro materialità. Laarman lo descrive così:
“Oggi, possiamo distribuire conoscenza in un modo che potenzialmente può riportare gli artigiani sul palco centrale del design – non in senso idealistico e romanticamente naïve, ma in un modo economicamente valido. Tutto quello di cui abbiamo bisogno è la rete, e tecnologie di manifattura digitale accessibili e più economiche“.
Anche Ronen Kadushin parla di “una rivoluzione nello sviluppo, produzione e distribuzione è imminente grazie alla natura dirompente di Internet e il facile accesso a macchinari a controllo numerico” e è uno dei pochi che ha realmente iniziato a sperimentare la pratica dell’open design condividendo pubblicamente il codice dei propri prodotti. Nella sua idea di open design, espressa nel Manifesto pubblicato nel 2010, un progetto viene pubblicato attraverso un file, sotto licenza Creative Commons, per poter essere copiato, modificato e prodotto anche autonomamente con una macchina per il taglio laser. Sul suo sito sono visibili le foto e scaricabili i file degli oggetti di open design creati sino ad oggi, mentre qui sotto potete vedere un video dell’assemblamento di uno di questi, parte della collezione “Recent Uploads”.
La portata dirompente che sta liberando il design di prodotto, e in qualche modo anche la moda, dal suo “fardello” materiale è infatti collegata all’abbassamento dei costi delle macchine a controllo numerico. Ma un altro grande contributo è dovuto, soprattutto, alla nascita di siti Web che offrono servizi non solo di prototipazione ma di vera e propria produzione on demand. Dalla stampa in 3D su materiali sempre più diversi come ceramica e metalli pregiati, alla stampa di design al metro su stoffa, fino al taglio di plexiglass, metallo, pelle, feltro in dimensioni sempre più grandi e senza costi di investimento iniziale per chi vuole produrre.
Ma come da Ronen a guadagnare se rilascia il proprio design liberamente? Sì, lo so che questa è la domanda che si stanno già facendo in molti. Il suo approccio è diversificato. Organizza workshop, insegna, e produce oggetti di design senza sentire il vincolo della loro produzione in serie e di dover convincere qualcuno che quel prodotto avrà successo. Li realizza in serie limitata, con la sua firma, per gallerie e spazi espositivi e, allo stesso tempo, ne rilascia il codice online permettendo a chi desidera di crearsene una copia materiale, anche modificandola. Se ci fosse un produttore in ascolto desideroso di produrla in serie, non deve far altro che contattarlo per trovare un accordo.
Nelle discussioni sull’open design si tende a farsi prendere dalla paura per tutto ciò che rischieremmo di perdere. Invece, bisognerebbe focalizzarsi sempre di più sulla potenzialità e libertà di azione che derivano proprio da questo: il cambiare punto di vista.
Questo articolo è stato pubblicato su CheFuturo! il 14 settembre 2012.