Artigianale, diffusa, connessa e open: è la moda del 2025. La facciamo adesso?
Il mondo della moda così come è strutturato oggi è costantemente proiettato nel futuro. Anzi, meglio parlare di futuri. C’è il futuro sempre presente, contenuto nelle sfilate, nelle fiere e negli esoterici quaderni di stile venduti a caro prezzo alle case di moda. Tutto questo diventerà presente fra qualche mese, quasi come una profezia che si autoavvera e ci permette di toccare con mano quello che avevamo solo potuto desiderare.
E c’è un futuro lontano, quasi da fantascienza, che racconta gli scenari difficili in cui il costo della manifattura e delle materie prime raggiunge livelli mai visti prima. Tutto a causa della scarsità d’acqua e di energia, a cui si affianca l’aumento del costo del lavoro nei paesi-fabbrica.
Di questi cambiamenti epocali già sentiamo i primi effetti oggi. Guardiamo per esempio al prezzo del cotone, raddoppiato dalla fine del 2010. Il modello di business della fast fashion, che ha raggiunto fatturati da record, si basa sulla produzione di milioni di capi attraverso il lancio in media di quaranta trend stagionali ogni anno promettendo il meglio della moda a bassi prezzi.
Sono proprio i numeri a dircelo: non è più possibile ignorare le conseguenze dell’insostenibilità di un’industria ad alta densità energetica. È importante prendere decisioni sui cambiamenti strutturali che il settore dovrà affrontare. Alcune grandi aziende con risorse e tempo a disposizione hanno capito che per immaginarsi un futuro radicalmente diverso dal presente bisogna avere molta immaginazione.
Così come bisogna Individuare nuovi vincoli da rispettare e superare la schiacciante pressione dell’abitudine. Di sicuro una cosa bisogna iniziare a farla subito: disegnare scenari e investire in progetti pilota per aiutarci a centrare meglio l’obiettivo.
Se siete a digiuno di questi argomenti un buon punto di partenza è Fashion Futures 2025, un progetto no profit inglese finanziato da varie grandi aziende – anche multinazionali, con il compito di raccontare alcuni di questi scenari possibili e facilitare la ricerca di soluzioni sostenibili. Ed è qui che sta la sfida.
Se le grandi aziende stanno investendo nel costruire un nuovo modello per la loro sopravvivenza, chi invece sta immaginando soluzioni possibili per le micro, piccole e medie imprese locali? Chi sta facendo in modo che queste realtà siano in grado organizzarsi fino a diventare protagoniste in grado di rispondere all’inevitabile crescita della domanda local? Quando ci siamo immaginati le idee ora contenute nel progetto di moda collaborativa Openwear (ispirato da suggestioni simili a quelle dello scenario Community Couture di FF2025), abbiamo cercato di muoverci proprio in questa direzione.
Come? Superando le inconsistenze del vecchio sistema a filiera lunga e basandoci su un concetto di artigianato diffuso e connesso, ricontestualizzato e, addirittura, potenziato da nuove tecnologie di produzione on-demand come tagliatrici laser e stampanti 3D condivise. Ma non si tratta solo di hardware: c’è soprattutto una cassetta degli attrezzi di codici aperti che comprende cartamodelli, tutorial e presto anche software di supporto e macchine per una manifattura open source.
Abbiamo condiviso queste idee con artigiani, designer, produttori di servizi, professori, sarte, fotografi e cartamodelliste. I feedback che abbiamo raccolto ci hanno mostrato quali sono le persone che più facilmente riescono, non solo ad immaginarsi il futuro, ma anche a raccogliere le opportunità del presente in modo che il cambiamento positivo arrivi passo dopo passo, in un processo organico e collettivo.
Per raccontarvelo partirei da quello che è successo nei mesi scorsi. Si è parlato molto di Makers in Italia e in rete si è acceso un interessante dibattito su cosa siano in realtà. In molti si chiedevano: “Non siamo sempre stati makers? L’Italia è piena di artigiani, di gente che sa fare le cose con le mani, con una conoscenza tramandata di piccola manifattura di qualità che ci invidiano in tutto il mondo”. Non si può negare questo fatto.
Quando gli americani ce la sono venuti a raccontare a World Wide Rome, ci chiedevamo sotto sotto se ci non stessero rivendendo l’acqua calda.
Ma il maker non è una professione e non è nemmeno un soggetto sociale. Siamo tutti makers in potenza perché si tratta di un’attitudine, di un modo per trovare soluzioni ai propri bisogni. Soprattutto, perché entriamo a far parte di una rete collaborativa, ed è per questo che preferiamo parlare di etica maker. Il maker trova la sua linfa vitale nei sistemi aperti di generazione e condivisione di conoscenza. Questa necessità fa cadere le rigide barriere tra chi produce e chi consuma.
Il produttore con l’attitudine maker rende partecipi i propri “consumatori” dando loro la facoltà di decidere quanto attivi vogliano essere nella creazione del prodotto finale. Io posso decidere se acquistare il prodotto finito, assemblato e funzionante oppure scaricarmi le istruzioni per costruirmelo da sola.
Superare l’idea che la condivisione di conoscenze e l’autoproduzione comportino l’impoverimento delle professionalità significa rendersi conto di un fatto preciso: sempre più persone saranno in grado di distinguere un prodotto di qualità.
Perché la qualità non è contenuta solo nell’oggetto in sé ma risiede soprattutto nella rete di relazione e scambio che si mantiene e fiorisce prima e dopo l’acquisto.
Il fatto che gli schemi e le istruzioni per creare un telaio Jaquard siano accessibili a tutti non significa che tutti abbiano il tempo e la voglia di costruirlo. Ma quelli che lo faranno renderanno il progetto ancora più funzionale nel rispondere alle esigenze di tutti.
Il progetto Osloom che un paio di anni fa è stato finanziato grazie a Kickstarter ha l’obiettivo di abilitare piccoli centri di produzione locale con telai non proprietari modulari (i telai commerciali si aggirano intorno ai 30mila dollari) liberamente modificabili a partire dalle proprie necessità di produzione.
Se ragioniamo più nel dettaglio, il punto è che produrre meravigliosi maglioni di cachemere all’uncinetto non ti trasforma automaticamente in un maker. Ci vuole altro. Condividere gli schemi delle mie produzioni, rendere trasparente l’iter di produzione permettendo a chi lo desidera di imparare a farlo, facilitare la costruzione di una rete per acquistare collettivamente lana ecologica a prezzi vantaggiosi sia per i miei colleghi produttori che per i consumatori finali: ecco, tutte queste sono azioni a beneficio di un sistema locale e organizzato. Più questa attitudine si diffonde, più i piccoli produttori locali saranno in grado di diventare competitivi con i giganti della moda.
Lo stesso si può dire per i terzisti del lusso, che realizzano prodotti ad alto valore manuale condizionati dalle istruzioni di stile dettate da brand della moda e destinati al mercato internazionale. Un ambito che rappresenta una nicchia di mercato profittevole finchè ci sono persone in grado di acquistare beni di lusso, ma che non si muove alla ricerca di un nuovo sistema di moda sostenibile.
Nulla vieta però che l’attitudine maker faccia agire i singoli artigiani in altri contesti. Nel tempo libero, autonomamente, potrebbero dare valore alle conoscenze acquisite in uno scenario più ampio. Così da mantenere il controllo diretto sul proprio lavoro e generare benefici per una collettività più estesa. Mantenere un dialogo aperto con la community significa anche accettarne la determinazione di alcuni standard e rispondere dove è possibile alle sue necessità.
Noi di Openwear possediamo una stampante 3D open source da circa un anno, acquistata in condivisione con Vectorealism in occasione delle iniziative Wefab. Ci è utile per lavorare alla prototipazione di accessori per la moda. Li possiamo progettare, stampare, testare, modificare e condividerne i codici per ricevere feedback. La stampante 3D usa come materia prima due tipi di filamento, uno in plastica molto comune e l’altro è composto da un derivato del mais, entrambe del diametro di tre millimetri. Lo acquistiamo online da vari produttori stranieri.
In questi mesi abbiamo cercato qualcuno che lo produca in Italia o sia interessato a raccogliere questa richiesta introducendolo come novità. Quando siamo andati a chiedere informazioni alle aziende che trattano questi materiali ci siamo accorti di una cosa: in molti ci approcciano come semplici clienti finali, e il loro scopo ultimo è solo offrirci i prodotti che hanno in catalogo (soprattutto in grande quantità). Non riescono a vedere l’opportunità di avviare un dialogo con noi.
Noi che siamo espressione di una comunità di riferimento di proprietari di stampanti 3D, una realtà che si sta moltiplicando in tutta Italia.
I libri di storia economica raccontano la “magia” dei distretti produttivi richiamando stuoli di imprenditori che si trovano la sera a bere il frizzantino e fare affari. Nello scenario attuale non basta più il frizzantino e non bastano più gli imprenditori. La complessità e le opportunità si sono moltiplicate.
Alcune criticità che ho evidenziato mostrano come il dialogo tra piccole realtà non sia sempre spontaneo e gratuito, ma vada nutrito e facilitato. Se vogliamo dei cambiamenti veri dobbiamo allontanarci da questo stereotipo diffuso e pensare seriamente a come alimentare le community in potenza che abbiamo sul nostro territorio.
La cultura della collaborazione richiede persone aperte al cambiamento e alla contaminazione, istituzioni che mettano a disposizione risorse per creare spazi di collaborazione online e luoghi di sperimentazione locali (fablab, makerspace, hackerspace). Ecco quello che serve per costruire una cassetta degli attrezzi dell’innovazione a partire dalle capacità professionali e autodidatte presenti oggi in Italia.
Questo articolo è stato pubblicato su CheFuturo! il 13 aprile 2012.