Zoe Romano parla di craftivism, fablab, progetti

posted on ottobre 2nd 2020 in Featured & News with 0 Comments

Intervista su Tendencias.tv ottobre 2020

Zoe Romano è stata intervistata da Tendecias.tv, un media indipendente di Barcellona attivo dal 2006.

Il testo originale in spagnolo lo trovate a questo link.

In cosa consiste il craftivism oggigiorno? Come si conduce?
La parola craftivism è un neologismo inventato da Betsy Grear e diffuso intorno ai primi anni del 2000 grazie alla pubblicazione di un suo libro. Il termine andava a definire quell’attivismo politico e critica sociale che usa le tecniche e le pratiche considerate solitamente domestiche e femminili. Maglia, uncinetto, ricamo diventano strumenti di coinvolgimento e strumenti per comunicare un messaggio perchè finalmente escono di casa ed entrano nello spazio pubblico. Una delle azioni più famose è dell’artista Olek con il suo “Charging Bull,” ha ricoperto il famoso toro di Wall Street. Più di recente abbiamo visto il PussyHat, cappellino fucsia fatto a maglia e lanciato per la WomenMarch statunitense ma poi diffusosi in tutto il mondo. La parte interessante di questo processo è riappropriarsi di queste pratiche che hanno rappresentato per anni uno strumento di reclusione delle donne tra le pareti di casa, per farle diventare una forma gioiosa, soddisfacente, sostenibile e fortemente comunicativa di emancipazione e coinvolgimento.

Intervista a Zoe Romano durante Manifatture Aperte a WeMake

Intervista a Zoe Romano durante Manifatture Aperte a WeMake

Che relazione esiste tra saper fare, e consumare? Come consuma una persona che conosce come sono i processi che sfociano in prodotti- per esempio di moda- che consuma?
L’aspetto complesso e interessante della moda è proprio l’essere un veicolo per comunicare concetti immateriali, come la propria personalità, identità o appartenenza. Gli abiti sin da subito si sono trasformati da oggetti utilitaristici a oggetto comunicanti, e allo stesso tempo, con l’arrivo del consumismo e della produzione industriale di massa, le persone che acquistano hanno perso la capacità di riconoscere la qualità dell’oggetto perché concentrati troppo su cosa significhi indossarlo. Nel mondo di oggi, con una crisi sanitaria ed ecologica che ci attraversa, il sapere da dove arriva un oggetto, come è stato fatto e soprattutto da chi e con quali materiali, sta diventando sempre di più un’esigenza che non dipende più solo da una relazione molto stretta tra saper fare e saper consumare.

Come diresti che sará l’industria della moda del futuro immediato? O per dirlo in un altro modo: come non potrá essere? Che cose non si potranno piú permettere di fare?
L’industria della moda si sta ripensando, ma non così radicalmente. Emergono ogni tanto voci fuori dal coro che si rifiutano di mantenere i ritmi accelerati di produzione e consumo imposti dal sistema moda. Nonostante ciò le imprese che ne fanno parte non hanno la capacità di autoregolarsi perchè sono spesso controllate da capitali finanziari che impongono un certo approccio estrattivo di profitti, a discapito di esternalità negative sull’ambiente e le persone. In questo momento sarebbe necessario attivare delle regolamentazioni più rigide, a partire dall’Unione Europea, in modo che, a fronte di una situazione critica, ci sia una trasformazione radicale perché il tempo rimasto per evitare il collasso non è più così tanto e il covid è solo un primo segnale di allarme.

Borse realizzate durante il progetto Crafting Fashion With Robots

Borse realizzate durante il progetto Crafting Fashion With Robots

Durante il lock down molte persone hanno voluto imparare a fare dal pane, alle proprie mascherine. La pandemia potrebbe essere uno scenario propizio per l’artigianato?
Di sicuro c’è stato un cambio di prospettiva, più attenzione per il locale e il sostenibile. La rottura delle filiere mondiali di produzione e distribuzione ci obbliga a diventare più autonomi rispetto ad alcuni beni di prima necessità che non possiamo lasciar produrre solo in Asia o nel sud del mondo. Se chi ci governa è lungimirante, riuscirà a attivare delle facilitazioni in modo che questo commercio di prossimità possa svilupparsi senza necessariamente avere delle economie di scala troppo ampia. E in questo, al centro di questo processo, vedo l’utilizzo delle tecnologie di fabbricazione digitale.

Alle volte si confronta in modo erroneo la tecnologia con l’artigianato. Puó essere artigianale un prodotto digitale?
Utilizzare una stampante 3d oppure il taglio laser è un processo molto artigianale anche se poi l’oggetto o parti dell’oggetto sono prodotte dalla macchina stessa. Gli oggetti creati con le tecnologie di manifattura digitale non industriale sono prodotti che stanno a metà strada tra l’artigianale e l’industriale. E’ come fosse una nuova classe di oggetti che hanno tutta una nuova serie di processi e routine per essere realizzati e in cui l’apporto umano è creativo e manuale, e non solo controllo di produzione come invece avviene nelle fabbriche. 

Artigianato digitale, l'esempio nel progetto Crafting Fashion With Robots

Artigianato digitale, l’esempio nel progetto Crafting Fashion With Robots

WeMake è una fabbrica urbana nella quale, tra le altre cose, si condividono strumenti e know how. Potresti darci qualche esempio di sinergie o progetti che siano nati nel vostro fablab?
In questi 6 anni sono nati molte situazioni interessanti sia informali che formali che ci hanno permesso di collaborare sia con un network internazionale, sia con le istituzioni, come per esempio il Comune di Milano. Abbiamo sempre creduto in questo aspetto più formale, di relazione più strutturata con la città, in modo che i progetto creativi e ad impatto che nascono in luoghi/laboratori/community come il nostro, non siano solo un divertente esercizio di stile da presentare alle fiere di design, ma diventino uno strumento per intrecciare i bisogni dei cittadini con le nuove capacità produttive locali legate proprio alla manifattura distribuita e all’on-demand. Per esempio collaborando alla costruzione di Manifatture Aperte  abbiamo aperto il luoghi della produzione urbana ai cittadini. Con il progetto Grippos invece, WeMake ha contribuito a rendere più accessibile la produzione di ausili per persone con diverse abilità lavorando con istituzioni che da anni si occupano di disabilità. Invece nel progetto Crafting Fashion with Robot, le sinergie si sono costruite all’interno del team di lavoro che ho costituito lavorando insieme a un computational designer come Francesco Perego con Eugenia Morpurgo, ricercatrice e designer.

Dove è diretto WeMake, come credi che evolverá?
Nel 2019 WeMake ha cambiato assetto e io sono uscita dal consiglio di amministrazione per potermi occupare anche di progetti che non riguardano WeMake.  A settembre abbiamo però iniziato un nuovo progetto Europeo chiamato Centrinno che durerà fino al 2024, insieme a 26 partner in tutta Europa, focalizzato sulla rigenerazione di quartieri industriali urbani per realizzare degli hub cittadini di produzione, networking e formazione. Lavorerò a questo progetto per WeMake e per la rete Nema di cui fa parte.

Cosa ti piacerebbe imparare a fare che ancora non sai?
Mi piacerebbe molto attivare un progetto sperimentale utilizzando macchine da maglieria industriali in grado di produrre capi “seamless” e testare l’utilizzo di fibre conduttive all’interno del processo di produzione.

 

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